di Marta Matteini

La linea guida di questo numero di Rosanova potrebbe essere sintetizzata nel principio base "Tutta la natura è un giardino", in nome di coloro che rivendicano una sorta di movimento di liberazione delle piante. Da che cosa? Dagli orpelli architettonici, dai diktat di certi progettisti (non tutti!) e da ogni costrizione di sorta. Lo spunto è l'annosa contrapposizione tra il giardino informale di fiori, il flower garden, e quello rinascimentale-barocco, poi rivisitato in epoca romantica, che Guido Giubbini espone in un saggio molto articolato. Se è vero, come è vero, che nella cultura occidentale e quella islamica "la natura è spazio di conquista da parte dell'uomo"e viene usata e delimitata per i propri fini, allora per cambiare approccio nei confronti del paesaggio dovremmo rifondare da zero il nostro sguardo. Riconciliarci con il "disordine vegetale" che in fondo vero disordine non è. L'impresa non è facile, però sembra venire sollecitata da più fronti, e non solo da questa rivista.
Esce in questi giorni l'ultimo saggio dello scrittore-giardiniere Umberto Pasti, Giardini e no. Manuale di resistenza botanica (Bompiani), in cui vengono demolite, una a una, le tipologie più diffuse di giardino, per incoraggiare un rispettoso riavvicinamento alla natura. Pasti non si diverte solo a fare il polemista, parla per esperienza diretta. Infatti, a una sessantina di chilometri da Tangeri, ha creato un giardino con 450 specie di piante selvatiche a rischio di estinzione. La sua è una "botanica della resistenza" contro la "botanica del potere", quella che sta distruggendo la costa del Marocco dove le ruspe cancellano dune e boschi secolari per costruire insediamenti turistici, decorati da giardini che si ritrovano a tutte le latitudini.
Con una simile omologazione, che sistematica e ottusa colpisce ovunque, anche gli spazi verdi diventano a poco a poco non-giardini, o per usare il termine coniato da Marc Augè, non-luoghi come gli aeroporti, ovvero luoghi privi di identità e di storia, esistenti solo per creare profitto.
In uno scenario così piatto, alcuni cercano di dare una scossa. Fenomeno molto recente in Italia, ma nato negli Usa quasi quarant'anni fa, i gruppi di Guerrilla Gardening, per esempio, inneggiano a lanciare "bombe di semi" per abbellire le zone dimesse delle città o salvare le piante spontanee. Non so che cosa pensi di simili iniziative il paesaggista Dan Pearson, esponente della "scuola naturale" britannica, a cui è dedicato l'articolo di Gabriella Recrosio. Ma anche lui dà assoluta preminenza alle piante e sostiene che il paesaggio è più forte di qualunque marchio umano. La sua priorità è cogliere "lo spirito del luogo".
A questo proposito ricordo un'osservazione di Frank Lloyd Wright riportata dalla guida durante la visita della tenuta di Taliesin, in Wisconsin, dove sorge la scuola di architettura fondata da Wright stesso nel 1932. "Ho comprato più terreno che ho potuto" raccontava l'architetto "perché non volevo correre il rischio di vedere spuntare un traliccio che avrebbe deturpato il panorama". E possiamo essergliene grati perché a tutt'oggi, nei 250 ettari di Taliesin, la vista è assolutamente intatta, un susseguirsi di colline a perdita d'occhio dove gli unici edifici, quelli della scuola, si confondono con i declivi e la vegetazione.