di Marta Matteini

Nei primi anni Novanta era stato coniato il termine Pantere Grigie per evidenziare il progressivo invecchiamento della popolazione occidentale, non solo italiana. A quasi vent'anni di distanza, possiamo constatare che i calcoli dei demografi erano corretti. Gli over 60 e over 70 rappresentano una porzione massiccia della società, rendendo necessario ridisegnare gli assetti familiari, i servizi sociali, le strutture d'accoglienza, l'organizzazione delle città stesse

e, se ci fosse la giusta sensibilità, anche dei parchi e del verde pubblico. Di pari passo, questo mutamento demografico dovrebbe portare con sé maggiore attenzione e rispetto nei confronti della terza e quarta età da parte delle generazioni più giovani. Invece questo non accade per una peculiarità tutta italiana. Come è stato denunciato da più parti, la nostra gerontocrazia blocca il ricambio generazionale e la mobilità sociale (basta guardare il governo, il parlamento, le università e gran parte delle posizioni di potere), dunque una certa insofferenza verso i vecchi può essere comprensibile, per quanto non giustificata.
Forse, per porre fine a questo paradosso, basterebbe tornare ad ascoltare chi ha vissuto a lungo cogliendo il valore della loro esperienza e farla propria. Raccogliere testimonianze del passato e farne tesoro è un tema sempre attuale in un paese che sta perdendo la memoria come il nostro ed è stato sollevato da David Bidussa nel suo saggio Dopo l'ultimo testimone riguardo alla Shoah. Quando non ci sarà più nessuno a raccontare quei fatti, scrive l'autore, dovremo andare oltre le commemorazioni e iniziare a interrogarci su di noi che siamo venuti dopo. Quel filo non va spezzato perché è da lì che noi veniamo. Coltivare la memoria serve proprio a farci capire meglio chi siamo.

Tutte queste riflessioni mi sono state sollecitate dall'articolo di Gian Lupo Osti, De Senectute in Hortu. A metà tra il trattato filosofico (vedi l'eco ciceroniana nel titolo) e il mémoire, è un testo in cui l'autore narra come ha sviluppato la passione per la botanica e per la natura nel corso della sua vita, alquanto interessante e movimentata. E sottolinea una serie di nessi illuminanti tra le relazioni umane e quella che si stabilisce con un giardino. La necessità di procedere per gradi, l'importanza di una griglia di connessioni con l'ambiente circostante e il fatto che non esistono mai soluzioni semplici, bastano a farci capire quanto un giardino riassuma la vita stessa, con tutta la sua impermanenza.

Ma l'insegnamento che più mi ha colpito è che Osti non parla alle piante, bensì le ascolta. Mettersi in ascolto, dunque, mi sembra davvero il filo rosso di questo numero di Rosanova. Lo ritroviamo, per esempio, nella paziente avventura di costruzione, ricostruzione e metamorfosi del giardino di Arena Po nell'ex fossato del castello visconteo, passato dalle mani del colonnello Aldo Beretta a quelle della figlia Maria Laura e del genero Guido Giubbini circa trent'anni fa. "Il giardino è un gioco che accompagna la vita", racconta Giubbini, ribadendo la connessione intima e mutevole tra piante e umani.
Un'intimità e un "ascolto" che riappaiono, seppur in forma diversa, nelle opere di Kathryn Gustafson, artista americana che, dopo il Fashion Institute of Technology di New York è approdata al paesaggio studiando a Versailles. Prima di ogni suo intervento, Gustafson penetra la storia del luogo, la sua memoria, le sensazioni e le percezioni che suscita. Non a caso inizia elencando le parole che le evoca il preesistente. Fonde l'organico con lo spirituale, vede il terreno come una pelle, un rivestimento da modellare, ne sfrutta le sinuosità naturali scolpendo il paesaggio, spiega Gabriella Recrosio. E il tutto è tenuto insieme dalla presenza dell'acqua, elemento centrale delle sue creazioni.

Da qui passiamo poi al luogo privo di acqua per eccellenza, l'Arabia, esplorandone un angolo insolitamente ricco dal punto di vista botanico. Paola Pistogini Von Aulock ci accompagna tra le meraviglie dell'Asir, regione popolata di ginepri, acacie e ulivi, e del Jebel Shada al Ala, massiccio di granito rosa, costellato di nidi di avvoltoi e aquile, dove Sheila Collenette, naturalista inglese, ha individuato rare specie di orchidee e ibiscus, tra arbusti alti fino a due metri e manti erbosi sulle pareti rocciose. Un'oasi botanica insospettata dove si avvistano anche animali rari, come il leopardo arabico e la lince persiana.