di Marta Matteini

Tante volte i luoghi risentono del nostro stato d'animo che, se non è dei migliori, ci fa archiviare quella visita o quel soggiorno come poco felice. A me è successo con Trieste dove trascorsi due anni per motivi di studio alla fine degli anni Settanta, in un periodo in cui mi sentivo particolarmente smarrita e confusa. Questo ha fatto sì che non ci tornassi mai più.

Ma dopo aver letto 'II parco di San Giovanni ovvero la storia di tre utopie' sono riaffiorati ricordi che avevo cancellato e che mi legano ancora a quella città così poco italiana, appartata eppure regale, austera eppure accogliente. Erano gli anni della legge 180 che rivoluzionava gli istituti psichiatrici rendendoli luoghi aperti e non più di segregazione. L'anima di quella riforma era Franco Basaglia, direttore del manicomio sito, appunto, nel parco di San Giovanni. Trieste era come un grande laboratorio sociale perché primo luogo di convivenza con il disagio mentale era proprio la città. Non mancavano le critiche, ma c'era anche entusiasmo e un certo orgoglio. I "matti" sull'autobus, per strada, sulle panchine, non spaventavano più di tanto perché i triestini sono abituati a vivere "ai confini", abitano un territorio al limite di grandi crocevia culturali e linguistici. In tutto questo il parco giocava un ruolo fondamentale e, da quanto si legge, continua a farlo. E' teatro di svariate attività culturali e botaniche e l'anno prossimo, questo giardino "senza sbarre", nobile esempio di verde pubblico, celebrerà il centenario del "magnifico frenocomio civico" inaugurato nel 1908, diventato il più bel manicomio del mondo.
Se l’eredità di Franco Basaglia non è andata perduta, lo stesso si spera accada per quella lasciata da Ippolito Pizzetti, grande divulgatore della pratica e della teoria del giardino in Italia, scomparso di recente.
Sull'onda delle commemorazioni, Rosanova non poteva trascurare il terzo centenario della nascita di Carl von Linné (1707-1778), padre del sistema binario di classificazione di piante e animali in latino, tuttora adottato universalmente.
In Notizie dalla Scandinavia si parla delle celebrazioni tenute in sua memoria in tutta la Svezia, ma anche dell'addio a due grandi svedesi del Novecento, il paesaggista Sven-Ingvar Andersson e il regista Ingmar Bergman. Sono scomparsi lo scorso luglio, a tre giorni di distanza uno dall'altro. Bergman si è spento a 89 anni nell'isola di Fårö, sul Mar Baltico, dove risiedeva da decenni. Tre Oscar, oltre quaranta film di cui molti indimenticabili, maestro nell'esplorare le tortuosità dell'animo umano, non era però insensibile alla natura.

« In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l'enorme betulla a due tronchi, abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà»
(Ingmar Bergman, La lanterna magica, Autobiografia, 1987)

Andersson, allievo del celebre paesaggista danese Carl Theodor Sorensen, è stato l'esempio più alto della scuola scandinava; la sua filosofia era "ottenere il massimo con il minimo". A lungo membro della giuria del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, se n'è andato allo soglia degli ottanta.

«Se avrò la fortuna di vivere a lungo tanto da raggiungere un'età patriarcale e senile fragilità, e se il mio pollaio non verrà sgomberato per far posto a una base missilistica o a qualcos'altro di utile, verso la fine di questo secolo o all'inizio del nuovo potrò starmene seduto in un boschetto di biancospino con una coperta sulle ginocchia. Forse ci sarà una piccola radura che permetterà in alcuni punti ai raggi de sole di toccare il terreno.»
(Sven-Ingvar Andersson, Brev fra min honsegard, 1967 [Lettera dal mio pollaio])

Non so se si conoscessero, ma mi piace ricordarli in questo immaginario scambio di confidenze che li rende molto vicini.